La scuola oltre i pregiudizi: il carcere di Pordenone raccontato dagli studenti del Kennedy
Il 6 maggio, la classe 5^AMP (Tecnologia delle Materie Plastiche) dell’ITST “J.F. Kennedy” di Pordenone ha visitato la Casa Circondariale della città, vivendo un’esperienza di grande valore formativo e civico. Accompagnati dai docenti Roberto Marinaccio (religione) ed Emanuela Gabriele (matematica), gli studenti hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con una realtà spesso ignorata e vittima di pregiudizi: quella del carcere, dei detenuti e degli operatori che vi lavorano quotidianamente. Un’occasione preziosa per superare i luoghi comuni e scoprire l’umanità che si cela dietro le mura di una prigione. «L’esperienza si inserisce — raccontano i docenti accompagnatori — in un più ampio percorso preparatorio nell’ambito dell’educazione civica, focalizzato sulle tematiche della legalità, della giustizia, dei diritti e dei doveri del cittadino, nonché sulla questione della funzione rieducativa della pena detentiva, come stabilito dall’articolo 27 della Costituzione italiana».
L’ingresso nella struttura penitenziaria ha subito offerto agli studenti una realtà inaspettata: un ambiente regolato, ordinato, ben lontano dalla visione talvolta stereotipata, caratterizzata da ostilità e degrado. «Mi aspettavo un luogo più “aggressivo”; invece, l’atmosfera era calma», racconta Martino, esprimendo una sensazione condivisa anche dal compagno di classe Ivan. Superati i controlli di sicurezza preliminari, durante i quali «si è percepita da subito la serietà del luogo che stavamo visitando» (Agnese), gli studenti hanno incontrato il Comandante della Polizia Penitenziaria, che ha illustrato il percorso giudiziario di un detenuto, dalla fase dell’arresto fino alla condanna definitiva. Successivamente, il funzionario giuridico-pedagogico ha spiegato il compito principale del carcere: rieducare le persone detenute, guidandole verso una consapevolezza critica dei propri errori e preparando il loro reinserimento nella società. La stessa educatrice, responsabile delle attività trattamentali, ha poi illustrato le diverse iniziative proposte ai ristretti: corsi di teatro, cucina, mosaico, muratura e altre attività finalizzate a mantenere una routine quotidiana costruttiva e a contrastare l’isolamento psicologico. Il fatto che i detenuti non vengano lasciati in balia di se stessi è un aspetto molto apprezzato da Erion, poiché «per reintegrare un individuo non basta farlo riflettere sugli errori commessi; è fondamentale anche aiutarlo a intraprendere un’attività utile, sia per se stesso che per la società nel suo insieme».
I primi passi nella struttura carceraria hanno suscitato tensione e nervosismo nel gruppo classe. Per alcuni, come Agnese, si è trattato di un impatto molto forte: «sapevo che non sarebbe stato facile, dal punto di vista emotivo, trovarmi di fronte a persone arrestate, rinchiuse in una struttura isolata, e ascoltare le loro storie. Allo stesso tempo, però, ero consapevole che questa esperienza mi avrebbe lasciato qualcosa di importante». Silvia, invece, ammette – «all’inizio non ho percepito la tensione che mi aspettavo, forse perché ancora non realizzavo davvero dove mi trovassi. Solo quando abbiamo iniziato a percorrere i corridoi e a intravedere le celle ho cominciato a prendere coscienza dell’ambiente, e con essa la tensione ha iniziato ad aumentare sempre più». Davide va ancora più a fondo nell’esplorazione delle sue sensazioni iniziali: «l’ingresso è stato il primo momento in cui ho sentito un senso di distacco dal mondo esterno: porte blindate, controlli, agenti della polizia penitenziaria, il rumore metallico delle chiavi, tutto contribuiva a creare un’atmosfera di tensione. Alcuni detenuti ci scrutavano mentre passavamo, fermi vicino alle sbarre o seduti in corridoio. I loro sguardi erano intensi, alcuni curiosi, altri forse infastiditi dalla nostra presenza. Quegli occhi mi hanno fatto sentire esposto e vulnerabile. È stato uno dei momenti di maggiore disagio per molti di noi. Abituati alla libertà dei nostri spazi, lì dentro tutto sembrava diverso». Ed in fine Erion, «siamo stati accolti in una sala ricreativa alla quale siamo arrivati salendo le scale. Giunti al primo piano, ho notato alcuni detenuti che ci osservavano, quasi volessero dirci qualcosa. Sembravano molto sorpresi di vederci lì. Quando siamo saliti al secondo piano e si è ripetuta la stessa scena, allora ho iniziato a riflettere sul valore della libertà».
Il momento più atteso e carico di significato è stato quello dell’incontro con tre detenuti, di età diversa, tra cui uno molto giovane, che hanno scelto di raccontare alcuni aspetti della propria storia personale. Un confronto che ha infranto le barriere del pregiudizio. «Ci hanno salutato con un accenno di sorriso, ma si percepiva nel loro sguardo una certa tensione, come se si sentissero esposti al nostro giudizio» (Davide). «Seduti in cerchio — ricorda Rossella — abbiamo posto ai ristretti le nostre domande, le nostre curiosità, i nostri dubbi, stando attenti a non interferire nella loro sfera personale, della quale i carcerati non sono tenuti a parlare. Loro, sempre cordialmente, ci hanno risposto in modo esauriente, colmando tutte le nostre curiosità. Una volta rotto il ghiaccio, il semplice "domanda e risposta" si è trasformato in un vero e proprio dialogo tra noi e loro: i detenuti stessi hanno iniziato a porci delle domande, rendendo il clima meno rigido». «Si sono mostrati molto aperti e disponibili nei nostri confronti; man mano che il tempo passava, la conversazione diventava sempre meno distaccata» (Giulia). Una conversazione che Carlo ha colto e descritto come un momento di autentica sincerità: i detenuti hanno risposto con disponibilità e trasparenza alle domande, senza lasciarsi condizionare dall’eventuale giudizio degli interlocutori. «Le parole dei detenuti mi hanno profondamente colpito — osserva Marco, lasciando trasparire la sua emozione: si percepiva chiaramente la spontaneità di persone che, pur avendo commesso degli errori lungo la loro vita, manifestavano nei loro occhi, con forza, un desiderio di redenzione e riscatto».
In modo del tutto inaspettato, il detenuto più anziano si è rivolto agli studenti con una domanda diretta, quasi provocatoria, per stimolare una riflessione sulla reinserimento sociale: “se un giorno, da uomo libero, mi incontraste per strada, cosa fareste? Mi salutereste, vi fermereste a parlare con me oppure mi ignorereste e vi allontanereste per paura di un ex-carcerato?”… «Se nel futuro lo incrociassi in giro per la città, cosa farei? Credo che lo ignorerei — afferma Irene. Congratularmi per il fatto che sia uscito mi sembrerebbe esagerato e scortese, soprattutto essendo una persona che ho visto per due ore a malapena. Iniziare a pensare o a parlare male di lui, senza sapere quasi nulla del suo passato e della sua vita fuori dal carcere, lo considero ancora più insensibile e superficiale. Non andrei da lui, ma se lo riconoscessi, credo che sarei contenta di rivederlo in società e mi ritroverei a sperare che la sua vita sia felice».
Attraverso i loro racconti, i detenuti hanno ripercorso, alcuni in maniera diretta, altri più velatamente, il percorso che li ha condotti in carcere. Non hanno però solo parlato degli errori: «si sono soffermati anche sui loro progetti e sulla voglia di cambiare vita. Le loro parole ci hanno colpito profondamente, perché ci hanno mostrato l’aspetto umano della detenzione, spesso ignorato o giudicato senza conoscere» – osserva Emily. «Tutte le loro storie mi hanno colpito profondamente — ammette Erion — ma ciò che mi è rimasto più impresso nella mente è stata la risposta che hanno dato alla domanda… “Un consiglio importante che dareste ai giovani?” Un detenuto ci ha suggerito di seguire i consigli dei nostri genitori. Il più giovane ci ha esortato a divertirci senza mai oltrepassare i limiti, per evitare di trovarsi in situazioni sgradevoli. Il più anziano ci ha spronato a usare sempre la testa prima di compiere ogni azione. Infine, il comandante della polizia penitenziaria ha sottolineato un dettaglio molto rilevante: “Niente è mai scontato”. Da un giorno all’altro, potremmo trovarci in situazioni spiacevoli senza nemmeno renderci conto del “come” e del “perché”».
L’incontro ha stimolato negli studenti riflessioni profonde sulla colpa, sul riscatto e sull’umanità nascosta dietro lo stigma sociale del detenuto. «Non hanno cercato di giustificarsi, piuttosto cercavano di trasmettere ciò che avevano imparato dai loro errori» – osserva Silvia.
Martino aggiunge: «davanti a me ho riconosciuto il disagio e il senso di colpa che queste persone provano e la loro determinazione nel voler diventare persone migliori». Anche Agnese ha colto la volontà di trasformazione: «mi hanno dato l’impressione di essere pronti a mettersi in gioco e rivoluzionare la loro vita in meglio». Ivan coglie la funzione purificatrice che il tempo trascorso in cella sta svolgendo nelle loro vite: «dai loro racconti traspare sincerità e – in qualche sfumatura – del pentimento per quanto fatto, sottolineando quanto il tempo porti all’analisi dei loro errori».
«Ritengo — afferma Marco — che questa sia stata una delle esperienze più importanti a livello umano e morale che abbia mai fatto. Mi ha aiutato a comprendere che può capitare a tutti di finire in carcere e, in secondo luogo, che a volte i pregiudizi sono l’errore peggiore che possiamo commettere nei confronti delle altre persone». Delle loro storie ascoltate, «alcuni dettagli mi sono rimasti particolarmente impressi — scrive Sara. Sia per il contenuto delle risposte, sia per lo stato d’animo che emergeva mentre raccontavano ciò che era accaduto a loro e alle persone a loro care. Il più giovane dei tre, che è sembrato il più schietto, ci ha raccontato la sua vicenda, o meglio, le attività che lo hanno portato a trovarsi dove è oggi. Di lui mi ha colpito soprattutto il fatto che anche suo fratello si trovi nella stessa situazione e, per di più, per le medesime ragioni. La seconda persona è stata più riservata, lasciando emergere solo qualche frammento della sua vita, come il fatto di avere dei figli e di dover scontare una pena tutt’altro che breve. Ci ha spiegato di aver imparato un mestiere all’interno del carcere, attività svolta per non sprecare risorse e opportunità di reinserimento. Il ristretto più anziano sembrava preferire una conversazione su temi generali, evitando talvolta di rispondere a domande personali. Eppure, alla fine, è stato proprio lui a intrattenersi più a lungo con noi, rivelandosi una persona estroversa, qualità che all’inizio sarebbe stato difficile intuire. Della sua storia mi ha colpito in particolare il modo in cui parlava della persona a lui più cara, la cui salute è fortemente compromessa. Oltre al racconto in sé, mi ha colpito profondamente il suo stato d’animo: appariva triste, ma anche arrabbiato, o forse amareggiato. Non con noi, bensì con se stesso, perché non può stare accanto alla persona che più ama proprio nel momento in cui ha più bisogno della sua presenza».
Per gli studenti, il tema della libertà ha assunto un significato del tutto nuovo. «Dalle storie dei detenuti, ho capito che solo quando veniamo privati della nostra libertà ci rendiamo conto di quanto quest’ultima sia importante» — afferma Giulia. E Davide chiosa — «abituati alla libertà dei nostri spazi, lì dentro tutto sembrava diverso».
Anche il pregiudizio è stato un argomento al centro delle loro riflessioni. Martino ammette che «ascoltando le loro parole e capendo cosa avevano vissuto, è diminuito il mio pregiudizio nei loro confronti». Emily ha colto la difficoltà che un detenuto troverà dopo il carcere, nel processo di reinserimento — «il giudizio della società nei loro confronti è presente e radicato; ciò limita la loro inclusione e realizzazione fuori dal carcere». Giulia sottolinea che «l’appellativo detenuto nasconde diverse realtà umane, perciò nessuno dovrebbe permettersi di giudicare e fermarsi all’apparenza». Talita scrive ancora che «la visita alla Casa Circondariale di Pordenone è stata un’occasione di grande valore educativo. Ci ha permesso di aprire gli occhi su una realtà diversa dalla nostra, facendoci riflettere su temi importanti come la legalità, la giustizia, la responsabilità e soprattutto l’umanità. È fondamentale, per noi giovani, imparare a guardare oltre le apparenze e capire che tutti meritano una seconda possibilità». Anche Davide sottolinea la funzione sociale del carcere, che «non è solo un luogo di punizione: è uno specchio della nostra società, delle sue ferite e delle sue ingiustizie, ma anche della possibilità di cambiamento. E noi studenti, da futuri cittadini, abbiamo il dovere di non restare indifferenti». Il valore formativo di tale esperienza è ripreso poi pure da Manuel, il quale osserva come la visita abbia contribuito a correggere l’idea — spesso distorta — che si ha del carcere, una visione troppo influenzata dai film e dai luoghi comuni.
«Mi sono resa conto, scrive in fine Agnese, di quanto la vita sia unica e meriti di essere vissuta nel migliore dei modi. Ritengo che questo tipo di esperienza sia una buona occasione per entrare in contatto con una realtà che potrebbe intimorire o farci storcere il naso». Conclude Sara — «di quest'esperienza mi è rimasto molto impresso come le loro vite non siano tanto diverse dalle nostre. Un padre di famiglia, un marito e un giovane ragazzo sono letteralmente persone che vediamo ogni giorno… basta poco per passare dalla parte del torto e ritrovarsi dentro». Ma il carcere non deve essere percepito come “un punto d’arrivo” — afferma Thomas — ma piuttosto come “un luogo di rinascita”, di slancio — dopo la caduta — dell’animo umano verso una vita piena e qualitativamente migliore.
Desideriamo ringraziare il Dott. Leandro Salvatore Lamonaca, Direttore della Casa Circondariale di Pordenone, il Corpo di Polizia Penitenziaria, il Funzionario giuridico-pedagogico e tutte le persone detenute che ci hanno accolto con disponibilità e apertura, dedicandoci parte del loro tempo.
Firmato
La classe 5^AMP dell’ITST “J.F. Kennedy” di Pordenone