Ragazzi del Kennedy in visita al carcere: un’esperienza umana e civile




Alla vigilia dell’apertura della Porta Santa a Rebibbia fatta da papa Francesco per dare inizio all’Anno Santo, fraterno gesto di premura verso gli ultimi, anche la 5
a B Meccanici del Kennedy si è recata nel carcere di Pordenone. L’iniziativa è partita dal docente di Religione Roberto Marinaccio, instancabile promotore di iniziative che mettono in contatto i ragazzi con le realtà meno conosciute del territorio. Qualcuno di loro perfino ignorava che qui esistesse una prigione: “Non sapevo nemmeno che in città ci fosse un carcere e l’idea che avevo di un luogo simile era molto diversa da quella che ho visto. La struttura è piccola ma accogliente e, a differenza di come viene rappresentata nei film o nelle serie tv, si percepisce un’atmosfera più umana e vivibile” (Jacopo). La Casa Circondariale di Pordenone è sembrata ai ragazzi un istituto di pena a conduzione famigliare, una struttura modello che interpreta alla lettera lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Merito di una rete competente e sensibile che sostiene i detenuti che va dalla Direzione, al supporto psicopedagogico, al sostegno morale di un prete di lunga esperienza come Piergiorgio Rigolo e alla correttezza e all’equilibrio degli agenti penitenziari. L’impatto con il carcere è descritto bene da Daniele: “Appena varcato l’ingresso, ho avvertito un senso di oppressione: il silenzio e l’austerità dell’ambiente mi hanno fatto capire immediatamente il peso del luogo”. Ma una volta entrati il carcere di Pordenone stupisce e commuove: infatti rammenta Riccardo “i muri erano colorati e su di essi erano raffigurati dei prati verdi con dei fiori colorati; questo forse serviva proprio ai detenuti per immaginare la libertà”. Sicuramente il momento più intenso è stato l’incontro con i detenuti nella sala in cui si tengono i corsi di musica. L’impaccio è stato pian piano sciolto dalle domande preparate assieme al docente. Così, osserva ancora Daniele, “i detenuti hanno condiviso riflessioni toccanti sulla loro esperienza: la rabbia iniziale, la speranza di uscire, la rassegnazione e, infine, l’accettazione della loro condizione”. I ragazzi sono rimasti colpiti dalla sincerità con cui detenuti hanno parlato dei loro errori, dall’appassionato invito da fratelli maggiori a riflettere prima di agire, perché basta un istante per uscire dalla legalità e dalla vita da liberi. E li ha colpiti «la risposta alla domanda su cosa farebbero se potessero uscire subito: “Rivedrei i famigliari”». Mi sono profondamente commosso, annota Daniele, quando ho visto due di loro emozionarsi parlando del legame con i propri cari. Le stesse emozioni le ha percepite anche Leonardo: “Molti di loro erano visibilmente commossi mentre parlavano con noi perché in qualche modo ricordavamo loro i parenti che avevano più cari: fratelli, cugini, figli o nipoti, in base alla loro età che andava da poco più di 25 anni a 60. Abbiamo così scoperto che, anche se detenuti, essi possono avere un cuore pure migliore del nostro, e sentirli parlare ci ha fatto riflettere su quanto sia facile giudicare una persona senza conoscere la sua vita e le sue motivazioni”. Al dialogo hanno partecipato anche gli agenti penitenziari e Michele rimarca “il clima di armonia che sembra esistere tra i detenuti e gli agenti… Mi aspettavo rapporti più tesi e conflittuali, ma ho percepito un’atmosfera di rispetto reciproco che contribuisce a rendere la convivenza più umana e tollerabile”. E sintetizza così quello che ha imparato da questa giornata: “Il carcere è certamente un luogo di punizione, ma può anche essere uno spazio di riflessione e crescita, sia per chi lo vive dall’interno sia per chi come noi lo osserva dall’esterno”. Questo è il giudizio di Matteo sul generoso aprirsi dei detenuti: “Attraverso le loro parole ho percepito il peso degli errori che hanno commesso e l’impatto che questi hanno avuto sulle loro vite, ma anche il loro desiderio di riscatto, la volontà di cambiare e la speranza di poter ricostruire una vita diversa e migliore”. Ma i ragazzi hanno compreso anche l’eccezionalità di questa realtà carceraria. Davide ricorda giustamente che “il carcere di Pordenone non è molto grande, quindi la rieducazione ed il recupero delle persone può avvenire con relativa facilità. Le guardie carcerarie ci hanno messo a conoscenza che in Italia esistono carceri con più di 800 detenuti e che quindi il recupero della persona non viene posto in primo piano come invece dovrebbe essere”.

Una cosa su cui i ragazzi hanno potuto riflettere forse per la prima volta seriamente è il valore inestimabile della libertà su cui tutti i detenuti hanno insistito durante il colloquio. Riccardo sintetizza così il loro insegnamento: “La libertà è la cosa più importante che abbiamo e, testa sulle spalle, dobbiamo essere consapevoli delle nostre decisioni perché nessuno ci obbliga ad intraprendere una brutta strada, siamo noi che lo facciamo”. E Michele annota: “Quello che mi ha lasciato questa esperienza è che la libertà non ha prezzo, e che si sta un attimo a perderla. Bisogna essere sempre rispettosi di sé stessi, ma soprattutto degli altri, perché prima di pretendere rispetto, bisogna darlo”.

Concluderei questo articolo lasciando la parola alla riflessione profonda di Marco: “In conclusione, la visita al carcere è stata un’esperienza che mi ha permesso di riflettere sull’importanza del perdono, sulla possibilità di cambiamento e sul ruolo di noi giovani nella società. Abbiamo la responsabilità di contribuire ad un cambiamento culturale che possa ridurre il numero di persone che arrivano a vivere queste esperienze”. E Daniele riassume in modo esemplare la valenza didattica, ma prima ancora umana e civile, di questa esperienza: «La scuola, promuovendo iniziative simili, offre un’opportunità unica per educare alla riflessione, all’empatia e alla responsabilità sociale. Sono convinto che esperienze di questo tipo dovrebbero essere incoraggiate e moltiplicate, perché il carcere non è un mondo “altro”, ma parte integrante della nostra società, con le sue sfide e la sua umanità».

Si desidera ringraziare il Direttore della Casa Circondariale di Pordenone, il Corpo di Polizia penitenziaria in servizio, il Funzionario giuridico-pedagogico, il Cappellano del carcere, le persone detenute che hanno messo a disposizione il loro tempo e tutti coloro che hanno reso possibile questa attività.

      

            Prof. Silvio Ornella,
                                                                      docente di Lettere all’ITST Kennedy di Pordenone